lunedì 23 marzo 2015

L'architettura segreta del mondo - primo estratto

Quando, nell’XI secolo, i mongoli di Gengis Khan erano calati dalle steppe l’effetto doveva essere stato simile.
Certo, i mongoli non avevano zainetti multicolori, sandali Birkenstock e pantaloni kaki, ma il concetto, secondo Sensi, era lo stesso. Alla faccia della crisi, scendevano lungo via Prione in gruppi, parlando a un volume decisamente educato, in lingue decisamente forestiere e con espressioni giulive che al commissario mettevano i brividi.
Naturalmente il fatto era che Sensi detestava l’estate.
La brezza fresca e salina che soffiava dal mare, mitigando la calura, lo metteva a disagio. Le facciate dei palazzi, brillanti di luce, gli ferivano gli occhi. Il sole, a picco nel cielo, batteva impietoso sui suoi abiti neri facendoli diventare caldi e umidi come la salvietta di un bagno turco. Dietro alla sua nuca si creava una nicchia ecologica la cui biosfera Sensi non osava esplorare.
Il problema era che Sensi aveva i capelli troppo lunghi. Troppo lunghi e insolitamente scuri. O meglio, insolitamente scuri per un trentasettenne, come gli avevano gentilmente fatto notare di recente.
La città era invasa di turisti inglesi, tedeschi e americani, tutti tesi verso il prossimo paesaggio così pittoresco e ansiosi di comprare souvenir tipicamente locali, fabbricati in Cina su disegno giapponese.
Gli spezzini li tolleravano.
Non erano molti gli aspetti della sua città di residenza che piacessero al commissario Sensi. Il mar Tirreno non l’aveva mai convinto (e comunque anche l’Adriatico vicino a Gorizia non era preferibile), la carenza di servizi lo avviliva, l’aria di provincia lo nevrotizzava e da quelle parti, secondo lui, si moriva di noia.
Tuttavia non poteva fare a meno di provare una certa ammirazione per il carattere scostante degli spezzini. Pessimisti, chiusi, ruvidi, dotati di slanci emotivi scarsi o nulli, avevano ricevuto l’implicita approvazione del commissario fin dalla prima occhiata. Alla quale, naturalmente, avevano risposto con uno sguardo torvo.
Se le altre città italiane durante la stagione turistica diventavano stranamente attraenti e vitali, se tutti i commercianti di quelle città sorridevano in modo sospetto a chiunque indossasse bermuda e sandali tedeschi e se branchi di americani ubriachi venivano incoraggiati dalla popolazione autoctona a scorrazzare per i centri storici con espressione obnubilata; gli spezzini si limitavano a fingere che i turisti non esistessero.
Alle loro maniere cordiali opponevano un’indifferenza cosmica, ignorandoli come ospiti fuori luogo a un ricevimento.
Sensi approvava.
E, anche se quel giugno era più caldo della media, non aveva ancora adottato il suo abbigliamento estivo per una questione di puntiglio.
Motivo per cui, nel breve tragitto dalla sua mansarda rovente alla sua rovente jeep, si era quasi sciolto. Per “breve tragitto”, naturalmente si intendeva “breve tragitto per uno che ha parcheggiato in città”, ovvero circa quattrocento metri prevalentemente al sole.
Ben protetto dal suo abbigliamento invernale, quindi, si era infilato nel wrangler e aveva acceso in un gesto unico motore e aria condizionata.
Partendo dal basso, il suo corpo considerevolmente magro era coperto da: anfibi di cuoio nero dalla punta rinforzata alti fino a metà polpaccio, jeans aderenti neri un po’ sdruciti del tipo spesso, t-shirt a maniche lunghe nera con il logo dei Joy Division e, legata in vita, una felpa nera con sopra una fila di ufo stilizzati bianchi. Gli occhi erano coperti da un paio di occhiali tondi da saldatore.
Se qualcuno gli avesse chiesto perché portasse occhiali da sole così coprenti, Sensi avrebbe probabilmente risposto “per vedere il meno possibile”. In realtà i suoi piccoli occhi grigi erano innaturalmente sensibili alla luce e senza gli occhiali, d’estate, non avrebbe visto quasi niente sul serio.
Quella mattina (se mezzogiorno meno un quarto poteva considerarsi “mattina”) il suo vice, Massimiliano Tudini, gli aveva fatto presente che farsi vedere in questura un po’ prima delle tre del pomeriggio sarebbe stato gradito.
Il commissario era quasi sicuro che ci fosse un messaggio ben preciso nascosto nelle parole di Tudini, anche se non aveva idea di quale fosse.
Purtroppo Massimiliano, nonostante gli anni di formazione con Sensi, non era ancora in grado di spifferare, senza giri di parole, “il questore è fuori dal tuo ufficio.” Appoggiare senza riserve il nullafacentismo di Sensi non gli sembrava professionale.
Sensi accettava la cosa con filosofia.
Non appena l’interno della jeep raggiunse una temperatura accettabile si staccò dal marciapiede e si immise nel flusso irregolare del traffico di via Gramsci. Passò davanti al museo di arte moderna, dall’architettura inquietantemente simile a quella della questura, e proseguì verso viale Italia e il lungomare. Visto che uno dei vezzi degli automobilisti spezzini era di far trascorrere almeno cinque secondi dal momento in cui scattava il verde a quello in cui partivano, il tragitto non fu particolarmente veloce.
D’estate, tuttavia, le strade erano più libere e gli animi più rilassati. Per arrivare in questura gli ci vollero solo una ventina di minuti, più o meno lo stesso tempo che ci avrebbe messo a piedi. Era un ottimo risultato.
Lasciò la jeep nel parcheggio sotterraneo e salì nelle stanze della squadra mobile.
Come sospettava, Salvemini stava incrociando davanti al suo ufficio.

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