sabato 5 novembre 2011

Pierrot - 6

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Esattamente tre ore dopo eravamo con le chiappe appoggiate su due lussuose poltrone di prima classe, diretti verso sud. Liz aveva ancora gli aderentissimi jeans bianchi senza sotto la biancheria, io ancora i miei sdruciti jeans blu, con sotto un’altra erezione.

L’hostess, molto gentilmente, finse di non farci caso quando mi versò da bere.

A parte questo io avevo anche due passaporti nuovi, uno per me e uno per Liz. Quando si spensero le luci le chiesi se poteva liberarmi del mio imbarazzo infilando la testa sotto alla coperta. Fu un altro smacco per la mia virilità.

Cambiammo volo altre due volte, e alla fine salimmo su una barca privata che ci avrebbe accompagnato alla mia isoletta.

Durante tutte le dieci ore di viaggio avevamo scambiato forse dieci parole: una all’ora.

La mia isola era più o meno tonda, più o meno di un chilometro di diametro, sabbiosa, con tre palme, quattro cespugli d’agave, un molo, una barca a motore e una casa.

La casa era di legno di tek, e possedeva quattro stanze: una cucina, una stanza da letto, una biblioteca e un salotto. Come avrai già capito di solito non vengo qua in compagnia.

Liz aspettò che mollassi le casse coi rifornimenti in cucina prima di farmi la domanda che aveva in mente da dieci ore.

“Chi sei Pierre?”

Io la guardai un istante, poi mi strinsi nelle spalle, come a dire: uno stronzo qualsiasi.

Lei buttò a terra il sacco che si era trascinata fin là. “Dai,” insistette. “Chi sei perché il vecchio ti paghi per venire a letto con me?”

“Che mi paghi per questo io non te l’ho mai detto,” risposi.

“Appunto.”

La guardai di nuovo. I suoi splendidi occhi color antracite iniziavano a tradire i primi segni di paura.

“Un assassino,” le risposi, a quel punto per tranquillizzarla. In un certo senso funzionò. Liz capì tutto al volo. Sospirò, accettando il suo destino con stoicismo.

“Non avrebbe potuto semplicemente sfregiarmi?” chiese, ma con voce fiacca.

“Non chiederlo a me,” risposi, stringendomi di nuovo nelle spalle. Poi iniziai a sbottonarmi la camicia.

“Ovviamente,” aggiunsi, lanciandola da un lato, “sai già quale potrebbe essere la tua unica via di scampo.”

Lei si sfilò il maglione, che fino a quel punto l’aveva solo fatta sudare, e anche tutto il resto. La guardai spassionatamente, alla ricerca di un qualunque difetto. Non ne trovai.

Uscii e andai a recuperare la mia sdraio in camera. La trascinai fuori. Il sole era caldissimo, ovviamente, ma dal mare tirava un bel vento fresco. Si stava benissimo. Osservai, lontana sull’orizzonte, l’isola di Barbados. Sapevo che la stava osservando anche lei, magari insieme alla mia barca.

“Il motore ha un codice di sblocco,” comunicai, aprendo la sdraio sulla sabbia, vicino al bagnasciuga.

Mi ci stravaccai sopra. Dio, se si stava bene. Liz si accucciò tra le mie gambe, nuda, e mi slacciò i pantaloni. La guardai dall’alto, con gli occhi socchiusi, mentre me lo prendeva in bocca. Ancora una volta fu uno smacco, ma questa volta lei non si fermò.

Scoccia ammetterlo, ma venni ben tre volte in un’ora, il che, come capirai, non è proprio un gran record. Il sole mi abbronzava e abbronzava anche lei, rosolandoci a fuoco lento.

Quando finalmente calò sull’orizzonte mi scrollai di dosso pantaloni e puttana e mi avviai mollemente verso il mare. Entrai nell’acqua fino alla vita e Liz, fedele, mi venne dietro, con un lieve ondeggiare di seni.

Fare il gran maiale per il momento era piuttosto soddisfacente, se te lo stai chiedendo.

In acqua, Liz si guardò intorno con viso inespressivo, osservando i colori del tramonto.

“Be’,” mormorò, “almeno è un bel posto per morire, eh?”

Due lacrime quiete le scivolarono giù per le guance, bellissime come tutto il resto di lei.

“Uno dei più belli,” concordai. “Se dovessi scegliere, questo sarebbe il mio preferito.” La accarezzai sulla schiena. “Guarda come il sole si tuffa nell’acqua all’improvviso.”

“Fin quando mi terrai in vita?” mi chiese lei.

“Fin quando non mi sarò stancato,” le risposi, sincero.

“E se non ti stancassi?”

“Allora non moriresti. Non ne abbiamo già parlato?”

Lei chinò la testa. “Scusa,” mormorò.

Ora, questo mi fece una certa impressione. Il suo completo abbandono, il fatto che mi chiedesse scusa perché io ero stato stronzo. Mi incuriosì.

Uscii lentamente dall’acqua e mi andai a sdraiare sul bagnasciuga. Lei mi si sedette accanto, la sabbia umida che le si appiccicava dappertutto. Mi tornò immediatamente duro. Dio mio, stava diventando un incubo!

Lei si chinò su di me, pronta a prendermelo ancora in bocca, ma io la scostai. Non potevo continuare a quel modo. Lei si sedette a gambe incrociate, e mi guardò.

“L’hai già fatto prima?” mi chiese. Poi si morse le labbra, come se sapesse che non avrebbe dovuto domandarlo.

“No,” le risposi. “È stata un’idea del momento.” Le accarezzai una coscia. “Mi rendo conto che è un’idea crudele, ma è anche irresistibile,” spiegai.

Lei si morse ancora le labbra, quelle labbra perfette e insolenti, che ora tremavano.

“Come…” deglutì. “Come lo farai?”

Le sorrisi. “Non sentirai niente.”

Liz si asciugò una lacrima. “È tutta una vita che non sento niente. Strangolami lentamente, invece.”

“Sono così brutte le persone che soffocano…” risposi, dolcemente.

“È tutta una vita che sono bella,” disse lei.

Ero colpito. Di nuovo. Continuavo anche ad avere una pulsante erezione tra le cosce, ma non potevo farci niente.

Le infilai lentamente una mano tra le gambe e scavai un po’ nella sabbia per raggiungerla. Non volevo irritarla irrimediabilmente con i granelli ruvidi della sabbia, così rimasi all’esterno. Lei sciolse il nodo che formavano i suoi polpacci e si appoggiò sulle mani per agevolarmi il compito. Non resistetti e le entrai dentro con le dita, piano piano.

Liz mi fissò, senza neanche fingere che per lei facesse qualche differenza. Aveva già rinunciato, e mi dispiacque.

Mi rotolai su un fianco fino a esserle accanto e la feci stendere sulla schiena. Con le mani sporche di sabbia l’accarezzai lentamente ovunque. La solleticai sulle labbra, sulle braccia, sui fianchi. La toccai sui seni e sulle natiche, la massaggiai là dietro, poi le baciai i capezzoli. La sabbia mi entrò in bocca, ma non ci feci caso.

La baciai sulle labbra, le ripulii con l’acqua del mare, ma non c’era lo stesso gusto.

Finii, invece, per cospargerla ancora di più di rena umida, continuando nel mio gioco. Lei giaceva lì, immobile ma disponibile, con le gambe aperte. Mi chinai tra quelle gambe e la baciai, la leccai, titillai in punta di lingua la sua erezione di donna.

Era una questione di principio, vedi? E avevo tutto il tempo del mondo.

La punta del mio pene si conficcava nella sabbia, e lì venni, ma non mi fermai. Ero… infiammato. Continuai e continuai, sfiorandola ovunque, leccandola e – di fatto – mangiando un mucchio di sabbia, finché non la sentii tendersi leggermente verso di me.

Forse si era finalmente dimenticata che stava per morire.

Le sue mani affondavano nel bagnasciuga, ora, lambite leggermente dalle onde, e la sua schiena si inarcava.

Continuai ancora.

Non so per quanto andai avanti, ma alla fine avevo la mascella indolenzita e il cielo era quello blu chiaro dell’inizio della notte. Le salii sopra e la penetrai lentamente, un po’ anche per non farmi male, con la sabbia e tutto.

Lei si strinse a me e decisi di fottermene della sabbia. Ci diedi dentro per bene, con una mano ancorata sul suo clitoride, finché non la sentii venire.

A quel punto lo feci anch’io e fu un’immensa liberazione. Me lo sentivo lampeggiare dal dolore. Qualunque malattia avesse lei io l’avevo sicuramente presa, ma non me ne importava niente. ‘Fanculo, pensavo, tanto quando mai vivrò fino ai settanta?

Mi sfilai lentamente da lei, respirando forte, e mi afflosciai sulla sabbia. Liz piangeva, ma l’aveva fatto tutto il tempo.

“Che male…” mormorai e ebbi quasi voglia di ucciderla subito, non per ripicca, ma perché non ce l’avrei fatta mai più.

Lei sorrise. “Sì, anch’io,” disse.

Mi alzai faticosamente in piedi e le tesi una mano. Lei mi guardò, sembrò riflettere, poi la prese. Credo che pensasse che l’avrei uccisa allora. Be’, l’avevo pensato anch’io, no?

Comunque si issò al mio fianco, pronta.

Entrammo insieme nell’acqua e io sperai che nessuno squalo sentisse l’odore del sangue. Mi sciacquai. Abbassandomi il prepuzio quasi gridai dal dolore, ma da vero maschio tenni duro. Che cazzo di idee…

Poi, con grande gentilezza, risciacquai anche lei. Piano, molto piano, finché tutta la sabbia non se ne fu andata. Le lavai i capelli nel mare, splendenti nella notte.

Mi sentivo triste, posso dirtelo?

A ogni modo la lavai tutta e me la riportai verso casa. Credo che a quel punto avesse capito che non l’avrei uccisa quel giorno.

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