giovedì 1 luglio 2010

Lividi - 3

Mainardi e la Riu non erano fatti per collaborare. Sarebbe bastato guardare come condividevano il loro ufficio in questura per rendersi conto che non erano compatibili. Mainardi aveva sulla scrivania oggetti di ogni tipo, tranne quelli che gli potevano essere utili: un fermacarte fatto come il casco di Darth Vader, una pallina antistress, la Gazzetta dello Sport, dei chewing-gum e, nascosto in un cassetto, un calendario di Belen Rodriguez. La scrivania della Riu a Sensi aveva sempre fatto venire in mente la “terrificante simmetria” della poesia di Blake. Ogni oggetto era perfettamente allineato e utile per il lavoro dell’ispettrice: una matita dalla punta così affilata da poter essere usata come arma, un paio di bic rigorosamente nere, una gomma Staedtler immacolata, un righello e un paio di pinzette da filatelico.

Durante l’inchiesta sulla morte dell’anziano ucciso con un ferro da stiro, la Riu, pur essendo parigrado a Mainardi, assunse immediatamente il controllo delle indagini. Interrogò scrupolosamente i vicini, mentre Mainardi prendeva appunti, parlò col medico legale e tentò incessantemente di mettersi in contatto con il capo, non perché le servisse davvero il suo aiuto, ma perché che se ne fosse andato, semplicemente, non era giusto.

Il telefono del capo era staccato.

Verso le sette Mainardi propose di andarsene a casa.

“Siamo in servizio, Roberto. Non ci si aspetta che dei poliziotti in servizio lascino la scena di un crimine prima che gli accertamenti siano conclusi,” rispose lei, inflessibile.

“Veramente credo che sia esattamente quello che il capo si aspetta da noi,” precisò lui, non prima di aver sospirato. Perché Sensi non c’era mai quando serviva?

“E poi voglio interrogare di nuovo la famiglia del secondo piano,” aggiunse la Riu, che non sembrava né stanca né demotivata.

Mainardi si attaccò al cellulare, sperando che Sensi lo liberasse da quella tortura, ma il capo aveva ancora il telefono spento.

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