sabato 10 ottobre 2009

Clamidia - 22

L’agente Antonio Carozzo, al contrario di Baumann, non era molto ottimista. Anzi, si sentiva come se gli avessero appena chiesto di infilare la mano in un favo d’api.

In parte dipendeva dal fatto che la chiamata gli era arrivata da un commissario capo in persona. Quelli di solito non si abbassavano a parlare con la truppa e quando lo facevano non era mai un buon segno.

Inoltre il commissario che l’aveva chiamato era il commissario Sensi della mobile, sul quale, in questura, si dicevano delle cose: che era incazzoso, che il questore ce l’aveva in palmo di mano, che era praticamente un folle imprevedibile e che per di più otteneva anche dei risultati, con la conseguenza che non l’avrebbero mai rimosso.

Poi c’era la faccenda dell’abbigliamento, ovviamente. Era sempre vestito di nero e appena c’era un raggio di sole si infilava un paio di occhialetti da saldatore, il che spiegava perché era così pallido.

Carozzo aveva deciso da tempo che, se avesse fatto carriera, gli andava bene tutto meno che la mobile. E, be’, meno che la Digos, visto che il commissario Bignardi era un paranoico e lo sapevano tutti.

Comunque quello non era il momento di pensare alle promozioni, quanto, piuttosto, di non farsi sbattere sulle autostrade.

Scese dall’ascensore e si guardò cautamente intorno. Un open-space. Non c’erano fotografie di morti squartati in bella vista, né gente che lucidava la pistola, né teschi usati come fermacarte.

Non c’era nemmeno nessuno in vista a parte una donna che scriveva forsennatamente al computer, semi-sommersa da pile ordinatissime di fogli.

Carozzo, teoricamente, aveva staccato, ma era ancora in divisa. La donna, come se avesse un radar, sollevò gli occhi dal monitor per guardarlo.

“La porta in fondo, agente. Il commissario e gli ispettori la aspettano.”

Ispettori? Carozzo deglutì rumorosamente. Non aveva capito che ci sarebbero stati anche degli ispettori.

Comunque, ormai si era presentato e tanto valeva che andasse. La porta in fondo era socchiusa e dall’interno proveniva la voce bassa e secca di un inglese. Carozzo iniziò a sudare. In che razza di casino si era cacciato, senza nemmeno accorgersene?

Bussò una volta sulla porta socchiusa, sentendosi terribilmente sulle spine.

“Avanti,” rispose una voce femminile, brusca.

Carozzo entrò. L’ambiente era in penombra, se la quasi-oscurità si poteva definire penombra.

Il commissario Sensi era seduto dietro a una scrivania e stava parlando al telefono in inglese così velocemente che Carozzo non era in grado di capire una parola.

Davanti alla scrivania erano seduti un uomo e una donna. Lei la conosceva di fama: era l’ispettrice Riu. Dicevano che aveva il carattere più merdoso dell’intera questura. L’altro era un giovanotto biondo sui trentacinque, che nel complesso aveva un’aria quasi simpatica. Fu l’unico a sorridergli, quando entrò.

La stanza era il posto più disordinato che Carozzo avesse mai visto. C’erano pigne di fogli, libri e pattume vario su ogni superficie disponibile e anche per terra.

Mentre continuava a parlare il commissario accartocciò una lattina di Red Bull e la tirò dentro un cestino stracolmo, da cui rimbalzò sul pavimento. Poi, con un’ultima veloce raffica di suoni incomprensibili concluse la sua telefonata.

Alzò su di lui due occhi piccoli, grigi e stanchi.

“Si accomodi, agente Carozzo,” disse, ovviamente in italiano.

Carozzo si guardò attorno, nel panico. L’unica sedia libera era occupata da un’impressionante pila di fogli.

Il giovanotto biondo li prese e li buttò disinvoltamente per terra. “Qua andrà bene,” disse, sorridendogli di nuovo. Questa volta, però, a Carozzo il sorriso sembrò di derisione.

“Sì, signore,” riuscì a spiccicare lui, alla fine, e si sedette rigidamente sulla sedia appena liberata.

Sensi lo guardò per un istante in silenzio, poi fece una smorfia. “Merda, devo andare in bagno,” disse. Si alzò e fece il giro della scrivania.

“Buona fortuna, capo,” disse il giovanotto biondo.

“Ti penserò tutto il tempo,” rispose il commissario, uscendo dalla stanza.

Per un paio di interminabili minuti rimasero tutti e tre in silenzio. Il giovanotto biondo leggeva i messaggi sul suo cellulare, l’ispettrice fissava il vuoto con aria bellicosa e Carozzo li guardava di sfuggita, quando non si guardava le scarpe.

Alla fine il biondo si staccò dal suo cellulare e disse: “Ti volevo chiedere, Riu, tu lo sai come si è preso la clamidia?”

“Ci sono dettagli che preferisco non conoscere,” ribatté l’altra, sarcastica. “Ma sono certa che, se glielo chiedi, ti farà un resoconto completo.”

“Secondo me è stato in qualche trucido locale gotico berlinese,” disse il biondo.

“Probabile.”

“O in qualche trucido locale gotico italiano.”

“Oppure me l’ha attaccata tua sorella, Mainardi,” giunse una voce da dietro le loro spalle, ed era quella, scazzata, del commissario.

Il biondo non sembrò né offeso né sorpreso. Il commissario si risedette dietro alla scrivania.

“Dunque,” disse, “ci spieghi com’è successo che non si è accorto che i ladri erano entrati nel negozio.”

Carozzo fu quasi sollevato. Questa se l’aspettava e sapeva già come scaricare la colpa su qualcun altro.

“Be’, signore, in realtà quelli che non se ne sono accorti sono stati gli uomini della Lince,” disse, compito.

Sensi inarcò le sopracciglia e guardò l’ispettrice Riu.

“Ha altre domande?” chiese.

Carozzo si lasciò quasi sfuggire un sospiro. Il commissario aveva già finito. Era chiaro che sapeva già tutto quello che c’era da sapere e l’aveva chiamato solo per avere una sua dichiarazione sulla faccenda. Era altrettanto chiaro che Carozzo non poteva essere incolpato di niente.

“Ovvio che ho altre domande, commissario,” rispose l’ispettrice, dopo un significativo istante di pausa. “Non voglio annoiarla, ma di solito le dichiarazioni si raccolgono per intero. Quindi, agente Carozzo… lei era di guardia davanti alla gioielleria. Che cosa è successo, poi?”

“Sono stato lì, fermo, per quasi tre ore. A un certo punto è arrivata una macchina della Lince. Ho salutato i colleghi e – lo ammetto – ho lasciato la mia postazione per pochi minuti, chiedendo loro di sostituirmi.”

“E perché ha lasciato la postazione per pochi minuti?” continuò la Riu.

Carozzo fece il suo migliore sorriso di sincero imbarazzo. “Un bisogno fisiologico, ispettrice.”

Sensi inarcò di nuovo le sopracciglia nei confronti della collega, ma non disse niente.

“Quando sono tornato la situazione era sotto controllo, non era cambiato assolutamente niente. È chiaro che anche gli uomini della Lince devono essersi allontanati e…”

“La sua interpretazione non ci interessa,” lo interruppe l’ispettrice, secca. “Che cosa è successo, poi?”

Carozzo scosse la testa, abbattuto. “Non ne ho idea. Eravamo lì, tranquilli, quando ai colleghi è arrivata una chiamata che li avvisava che c’era un furto in corso, e il furto era proprio nella gioielleria che stavamo sorvegliando. Inizialmente abbiamo pensato a uno scherzo, ma nel frattempo erano arrivate altre due macchine della Lince e un paio delle nostre pattuglie. Siamo entrati nel negozio e abbiamo constatato che c’era stata un’effrazione.”

Carozzo restò in silenzio, mentre il commissario e l’ispettrice si guardavano in modo significativo.

“Immagino che non conoscesse personalmente gli uomini della Lince che sono stati così gentili da restare a sorvegliare il negozio mentre lei pisciava, giusto?” chiese Sensi, alla fine.

Carozzo scosse la testa. “Mi dispiace, signore.”

“Già. Ma scommetto che erano due tizi di media statura, tra i trenta e i quarantacinque, coi capelli castani.”

“In effetti sì, signore.”

Sensi inclinò la testa da un lato. “Il che ci fa pensare…” disse, guardando fisso l’ispettrice Riu “…che la banda sia almeno di quattro elementi. Uno doveva entrare a segare i cardini della porta, mentre gli altri due rimanevano fuori e il quarto era dai coniugi Russo. Be’, è già qualcosa. Grazie, agente Carozzo, può andare.”

Carozzo, sollevato, si alzò e iniziò a uscire.

“Ah, un’ultima cosa.”

“Sì, signore?”

“A quanta gente ha già raccontato questa storia?”

Carozzo arrossì. “Un paio di colleghi signore. Perché?”

Il commissario sventolò una mano come a dire che non importava.

“Volevo solo sapere se ci avrebbero dato degli imbecilli sul giornale di domani o di dopodomani.”

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