lunedì 5 ottobre 2009

Clamidia - 17

Un fantasma, per quanto generalmente sgradevole, risolve almeno in parte il problema della calura di fine estate.

Sensi, in mutande, era già passato dentro Hannele almeno tre volte per cercare di rinfrescarsi.

Ogni volta Hannele tremolava e si lamentava, ma non se n’era ancora andata, segno che forse non le dispiaceva nemmeno.

“Sei insopportabile…” piagnucolò, quando Sensi la attraversò per la quarta volta.

“Solo accaldato. E, grazie a te, ho anche il raffreddore. Non posso mettermi a mollo in una vasca piena di ghiaccio.”

“Potresti dormire.”

“Certo che potrei. Ma tu non lo desideri davvero, no?”

Hannele si abbracciò con le sue braccia fantasma. “Ho freddo. Non voglio restare da sola.”

Sensi si lasciò cadere sul divano.

“Se ti siedi sopra di me ti faccio compagnia.”

Hannele non sembrava convinta. Scosse ripetutamente la testa.

“Forza, da brava,” scherzò Sensi, “vieni sulle ginocchia del paparino.”

Hannele chinò la testa e si avvicinò obbediente. Sensi inarcò un sopracciglio.

“Sulle ginocchia, da brava,” ripeté, in tono più basso, come se stesse cercando di convincere un gatto a non scappare.

Hannele gli sfiorò una gamba con la punta delle dita.

Dava i brividi, questo era certo.

“Siediti qua,” disse Sensi.

Il fantasma, inizialmente, fece solo un passo avanti. Le sue ginocchia attraversarono semplicemente il corpo di Sensi, facendogli rizzare tutti i peli del corpo.

“Siediti,” disse, di nuovo, lui.

Hannele si sedette. All’iniziò attraversò Sensi e il divano, ma alla fine riuscì a prendere le misure. Era come stare in mezzo a una corrente di aria fredda, solo che l’aria non si muoveva affatto.

“Che cosa farai per me?” chiese Sensi, quando lei sollevò appena gli occhi per guardarlo.

Hannele non rispose.

I fantasmi erano obbedienti, se usavi le parole giuste, se sceglievi il ricordo giusto, ma non loquaci in senso stretto. Il fatto era che loro ripetevano quello che avevano fatto da vivi, per lo più.

Sensi non aveva idea di che cosa avrebbe dovuto spingerla a ripetere. Non era sicuro di chi stesse interpretando.

“Avanti, sto aspettando,” disse.

Hannele sembrò indecisa, poi iniziò a sfilarsi lentamente la felpa grigiastra.

Sensi osservò con gli occhi socchiusi.

“Ma che belle tettine,” disse, in modo quasi meccanico.

Aveva freddo e aveva anche una sensazione schifosa nella bocca, una sensazione che non aveva relazione col fatto che lei fosse un fantasma.

Hannele si accarezzò un seno con il dorso della mano, sfiorando il ciondolo mezzo bianco e mezzo nero che aveva al collo, e si chinò su di lui. Sensi chiuse gli occhi.

“Ti piace?”

“Non ancora.”

“Vuoi che balli?”

“Ma tu balli da schifo.”

Hannele si risollevò. Sembrava ferita.

“Forza, dai, balla, se proprio vuoi. Come facevi…”

“Al Dark Friday?”

“Già, se proprio devi.”

Hannele si sollevò, liberandolo almeno dalla sensazione di gelo.

Iniziò a sentirsi una musica cupa. L’idea di un certo tipo di musica, di certo. Non proveniva da un punto in particolare, piuttosto, era lì, nell’aria.

Hannele iniziò a muoversi languidamente, continuando a spogliarsi.

Dark Friday, pensò Sensi. Be’, se al Dark Friday ci fossero state delle donne che ballavano spogliandosi era certo che ci avrebbe fatto caso.

La musica continuava ad aleggiare nell’aria, cupa, anche più cupa della musica cupa che Sensi ascoltava di solito.

Ma non era musica, non nell’accezione più comune. Era musica fantasma ed era musica gelata.

Hannele continuava a muoversi e a spogliarsi. Ormai aveva soltanto da un minuscolo paio di slip neri e il ciondolo con lo yin e lo yang al collo. Tutto il resto era pelle luminescente e non del tutto a fuoco.

Sensi avvertiva improvvisamente il bisogno di mettersi addosso qualcosa, ma persino lui capiva che le manifestazioni spettrali di quel tipo erano fragili e che non si doveva muovere.

“Muovi un po’ quelle chiappe,” disse.

“Ok, Gunt- Ermanno,“ rispose Hannele, con un filo di voce.

Sensi continuò a osservare.

Le luci erano più flebili ora, e al rumore della musica si mescolava un altro rumore, più lontano: voci di ubriachi che parlavano in tedesco, suoni di risate, tavoli spostati… il rumore di un locale notturno, ma non quello di una pista da ballo, di un bar o di quell’angolino vicino ai bagni dove la gente parla. Erano i rumori di una saletta privata.

Hannele ballava come una marionetta, dimenando i fianchi in un modo che Sensi non avrebbe trovato sensuale nemmeno in una donna viva e nemmeno dopo tre o quattro birre.

Che buffo, pensò, di solito è chi lo vede, il fantasma, ad avere paura.

E Hannele, al contrario di quello che Sensi aveva pensato in un primo momento, non era un fantasma debole, che compare e scompare, che si limita a fissarti con occhi vuoti. Era un fantasma piuttosto carico d’energia – non il più forte che avesse mai visto, ma non proprio impotente.

L’aria era gelida e carica di una strana elettricità.

La musica era forte, adesso, decisamente forte. La solita signora Vittori, del piano di sotto, gli avrebbe piantato un casino.

E poi nell’aria in fondo alla stanza ci fu uno sfarfallio.

Sensi sentì che i capelli, sul collo, gli si rizzavano come aculei.

All’inizio era solo una vaga luminescenza, ma diventava più definita di secondo in secondo.

La musica si trasformò in un grido di chitarre elettriche, si distorse come in un incubo.

L’uomo camminò nel suo salotto, che ora era un privé fantasma, con passo spavaldo. Allargò le braccia come se fosse al settimo cielo ed esclamò: “Ein Party! Gute Idee, Baby!”

Hannele smise di ballare e per un istante sembrò terrorizzata.

L’altro non ci fece caso, si avvicinò e la prese per una natica, tirandola verso di sé.

Gunter – perché non poteva essere altri che lui – era un tizio alto, magro, più giovane di Sensi, ma con gli stessi capelli lunghi e neri, più neri dei suoi, tinti. Sensi non riusciva a distinguere bene il viso, ma era lungo e incavato, come il suo. Gli occhi erano sicuramente più grandi, il naso diverso… era difficile a dirsi. Da lontano, avrebbe potuto essere lui.

Gunter gridava in tedesco, palpava Hannele con la sicurezza di qualcuno che, se non è un amante, almeno crede di esserlo.

Hannele era spaventata.

Sensi si limitò a osservare quella gente morta che continuava con i vecchi vizi.

Gunter la baciava e le infilava le mani negli slip. Rideva e sembrava compiaciuto.

Sensi conosceva il tipo e per un istante si chiese se anche lui, quando ci provava con una tizia, sembrasse così spavaldo, prepotente e coglione.

Ovviamente no, si rispose.

Poi si concesse un mezzo sorriso.

Ovviamente sembrava solo disperato.

Gunter continuava a giocare con Hannele. Era un gioco pesante, più che il gioco di un amante sembrava quello del gatto col topo. La faceva girare, la toccava, la leccava, la mordicchiava, la sculacciava.

A Sensi quell’esibizione non serviva a niente.

Si alzò in piedi, in mutande. Avrebbe davvero voluto avere addosso almeno una maglietta, adesso.

Batté le mani una volta, forte.

La musica si fermò, la luce diventò la luce normalmente attutita del suo salotto.

Gunter si voltò verso di lui come se l’avesse morso un serpente.

“Wer bist Du?“ sbraitò, come se fosse il padrone della baracca.

“Sono quello che ti butta fuori, Gunter,” rispose Sensi, in inglese, sperando che quello stupido spettro capisse. “E se avessi un briciolo di cervello, sapresti che quella che sta tenendo su tutto è Hannele. È lei lo spirito potente, tra voi due. Divertente, vero?”

L’altro lo guardò con faccia ebete. Evidentemente aveva capito il succo del discorso, ma non che cosa il discorso significasse.

“Nell’Aldilà… lei ti fa il culo a scacchi,” chiarì Sensi.

Poi sollevò una mano e tracciò un ghirigoro nell’aria. Gunter l’avrebbe visto.

“Nell’Aldiqua, d’altronde… di gente che può farti il culo a scacchi ce n’è parecchia. Ti bandisco, cazzone. Rimetti piede in questa casa e brucerai da dentro per l’eternità.”

Il fantasma di Gunter per un istante sembrò stupito del fatto che un essere umano in mutande lo stesse cacciando dal luogo dove era apparso, ma poi, osservò di nuovo l’aria dove Sensi aveva tracciato il suo ghirigoro e iniziò a svanire.

“Hannele,” disse il commissario, con una certa urgenza, “aspetta.”

Anche lei stava svanendo. “Hai ragione. Sono più forte io. Grazie per avermelo mostrato.”

“Dimmi chi ti ha uccisa.”

Lei lo fissò con gli occhi duri, decisi, gli occhi di un fantasma così forte che sta per smettere di esserlo. “Gunter,” rispose.

“Non è vero,” replicò Sensi, con urgenza. Lei svaniva. E non sarebbe tornata.

“Sì, è stato lui… mi ha fatto del male persino da morto. È stata colpa sua.”

“Materialmente… chi è stato?” insistette Sensi.

Lei scrollò le spalle.

“Non so. Che mi frega?”

Un istante dopo non c’era più.

Tre ulteriori fatti si verificarono all’istante.

L’aria tornò a essere insopportabilmente calda e umida.

Il rumore della vicina del piano di sotto che batteva con la scopa sul soffitto diventò improvvisamente assordante.

Il cellulare iniziò a squillare.

Sensi rispose.

“Capo? C’è stata un’altra rapina.”

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