venerdì 2 ottobre 2009

Clamidia - 14

Sensi uscì dal suo ufficio dopo aver controllato che il download di Control, il film sulla vita di Ian Curtis, stesse procedendo senza intoppi.
Mise la testa dentro l’ufficio di Mainardi e della Riu, che fortunatamente era ancora Riu-free. “Interrompi la partita, andiamo a scoprire chi sono i rapinatori di gioielli,” annunciò.
Mainardi alzò la testa dallo schermo.
“Tanto stavo perdendo,” disse, senza preoccuparsi di negare, e spense il computer.
“Credevo che la Riu avesse una pista al campo rom,” aggiunse, prendendo il cellulare.
Sensi si limitò a inarcare le sopracciglia.
“Due colpi in due giorni,” riepilogò Sensi, quando furono sulla sua jeep. “Sembra una banda organizzata. Sembra gente che non ha tempo da perdere.”
“Nel primo caso hanno scassinato la cassaforte, nel secondo se la sono portata via tutta intera. E non hanno neanche provato a disattivare gli allarmi,” confermò Mainardi. Sensi procedeva nel traffico post-prandiale con quieta rassegnazione, ignorando i motorini che li sorpassavano a destra e a sinistra come uno sciame di api impazzite.
“In piena zona pedonale,” aggiunse Sensi.
“Non credo che fossero a piedi, capo. Sai com’è, la zona pedonale è veramente pedonale solo finché c’è gente per le strade.”
“È quello che pensavo anch’io. Anche perché portarsi via una cassaforte a piedi non dev’essere facile.”
“Quindi dovevano avere una macchina o un furgone. Peccato che in centro ci siano poche telecamere.”
“Hai parlato con quelli della Lince?”
Mainardi tirò fuori il suo taccuino, ignorando l’occhiata estenuata del capo.
“Nel primo caso sono arrivati sul posto in sei minuti e mezzo, nel secondo in cinque minuti e mezzo. Non so se i ladri sono stati fortunati o molto organizzati. Probabilmente conoscevano il giro delle macchine della Lince.”
“Probabilmente derubare una gioielleria non è così difficile come io e te abbiamo sempre pensato. Anzi, ho già in mente un hobby per la pensione. E su che cifre siamo?”
“Trenta-quarantamila euro.”
“Scremiamo la stima del venti-trenta percento, immaginiamo che i nostri ladri ci riprendano più o meno la metà, togli qualcosa per questo o per quello… restano sui diecimila e rotti euro esentasse guadagnati in, quanto, meno di dieci minuti?”
“Meno del tempo d’intervento della Lince. È deprimente.”
Sensi fece per la seconda volta il giro di piazza Verdi. Non c’era parcheggio neanche in divieto.
“Ma perché non se ne vanno tutti al mare, eh?”
“Sono tutti al mare, capo. Dovresti provare a cercare parcheggio a Portovenere.”
“L’ultima volta che sono stato a Portovenere mi sono intossicato coi muscoli,” ribatté Sensi. “Non sono un tipo marino.”
Finalmente avvistò un buco davanti a un’edicola e ci si buttò come un avvoltoio. Estrasse il tagliando delle forze dell’ordine e lo lasciò in bella vista sul cruscotto.
Piazza Verdi, nella calura di fine estate, sembrava l’interno di un forno microonde. Le mattonelline rosse erano sul punto di sciogliersi, ma fuori dai bar i tavolini erano pieni.
Il commissario e l’ispettore si infilarono nella relativa frescura dei portici di via Chiodo.
“Quello che non capisco sono gli orari. L’altra sera, prima delle undici, c’era ancora della gente per strada,” disse Mainardi.
“È evidente che questi se ne fottono della gente. E infatti non li ha visti nessuno, nessuno ha sentito l’esplosione. E sai perché?”
“Perché, capo?”
“Perché in piazza Sant’Agostino stavano facendo casino, ecco perché. Musica ad alto volume. Robaccia da radio commerciale. A volte li sento anche da casa mia. E dall’altro lato di via Prione sono tutti infognati davanti alla Loggia dei Banchi. Altro casino, anche se leggermente migliore. In mezzo c’è il deserto dei Tartari.”
“Pensavo che fossi un tipo da Loggia,” ridacchiò Mainardi.
Sensi sbuffò.
“O da Taverna del Metallo,” aggiunse l’ispettore, e Sensi sbuffò di nuovo.
“Quindi, secondo te, sono arrivati con la macchina, hanno fatto il colpo e sono ripartiti con la macchina,” decise di cambiare argomento, visto che il capo non sembrava ansioso di raccontargli come passava le serate.
Sensi girò in via Prione e iniziò a risalirla, passando davanti al teatro civico. “Mai che si trovi un punkabbestia quando serve,” borbottò.
D’estate, per ragioni sconosciute, in città non mancavano mai dei gruppi di giovani accattoni. Sembrava che i notoriamente tirchi spezzini per qualche ragione si trasformassero in tanti piccoli mecenati non appena vedevano un ragazzetto poco pulito che giocava col diablo.
Via Prione era molto più sgombra che in inverno, quando ogni pomeriggio si trasformava nella via dello struscio adolescenziale per antonomasia. Più che altro c’erano indaffarati trentenni, attivi pensionati e l’occasionale coppia a passeggio.
Finalmente, quasi di fronte al museo Lia, poco prima del luogo dove c’erano i tappeti quasi-istituzionalizzati dei senegalesi, avvistarono un gruppetto di punkabbestia che chiedevano svogliatamente l’elemosina e giocherellavano con delle palline da giocoliere.
Sensi si avvicinò e si fermò a tre-quattro metri di distanza con le mani in tasca.
“Capo…” iniziò Mainardi, che era un notorio assertore del sistema educativo della sprangata in testa per i ragazzi cenciosi e possibilmente sinistrorsi come quelli che avevano davanti.
“Zitto,” disse Sensi. “Potrai abusare del tuo potere in un’altra occasione.”
I punkabbestia, tre ragazzi e una ragazza nella prima ventina, sembravano del tutto ignari di quei due tizi che li guardavano fisso.
Sensi si avvicinò di un altro passo.
“Avrei qualche domanda,” esordì, senza salutare, guardando uno dei ragazzi.
Lui continuò a lanciare le sue palline di gomma per aria, ma voltò appena la testa verso di lui. “Sì?”
“Dove dormite, la sera?”
Il ragazzo inarcò le sopracciglia. “Che te frega?”
Sensi inclinò la testa da un lato, ma non disse niente. Una delle ragazze si alzò dal gradino sul quale era seduta, scavalcando un cane.
“’A bello, che vuoi?” disse, in tono scontroso.
“Sapere dove dormite.”
“Ma che, sei uno sbirro?”
Sensi sorrise appena. “Ma non ti conviene che tiri fuori il distintivo. Rispondimi e potrai restare qua a spulciare il tuo cane finché ti pare.”
“’A Raffaè, l’hai visto ‘sto sbirro? Se crede ggiovane!”
Sensi si avvicinò di un altro passo, in modo da poterle parlare senza che lo sentisse tutta la strada. “Hai finito di rompermi il cazzo?” disse, e la sua voce aveva uno spigolo duro che Mainardi era abituato ad associare a una valanga di merda in arrivo. Ma la ragazza non era allenata come lui e si limitò a sghignazzare. “Te piacerebbe…” iniziò a schernirlo.
“Che cosa mi piacerebbe? Prendermi le piattole? Ti sembrerà strano, ma no.” Si grattò il mento. “Sai, una volta ho arrestato un serial killer che stava per uccidere due tue colleghe. I suoi modi, generalmente parlando, non erano ineccepibili… tutto quel violentare, sgozzare, riviolentare… non è il mio genere di sport. Ma su un punto ero d’accordo con lui: quelle tizie avevano bisogno di una lavata, e anche a te non farebbe male.”
“Tu sei schizzato di brutto,” commentò la ragazza, facendo un passo indietro.
“Non hai idea. Adesso mi dici dove dormite e, come dire, proseguiamo con la conversazione, o vi devo portare ad ammorbare qualche cella?”
“E non sei neanche tanto gentile, eh?”
Sensi si voltò verso Mainardi. “Detesto perdere tempo in questo modo, ma sarà meglio che li prendi in consegna.”
“Ehy, aspetta! Dormiamo ai giardini, che è, un segreto?” intervenne frettolosamente il tizio delle palline.
“Cazzo, Raffaè… questi ci vogliono dare il foglio!”
Sensi sbuffò. “Non vi voglio dare il via. Non me ne frega un cazzo di voi. Voglio sapere se ieri notte aveva visto qualcosa di strano mentre cazzeggiavate per il centro.”
“No, senti, amico, noi ce ne andiamo in branda appena non c’è più gente. Stiamo, là, nei giardinetti. Non diamo fastidio a nessuno,” spiegò il ragazzo.
“Quindi ieri notte non eravate in centro?” insistette Sensi.
“Ieri notte nemmeno c’eravamo, in città. Eravamo andati a Lerici.”
Sensi fece una smorfia e li guardò per un altro paio di secondi, prima di stringersi nelle spalle.
“Merda,” si limitò a commentare. Tornò verso Mainardi. “Mi sembrava un’idea geniale.”
Mainardi sorrise. “Però potremmo arrestarli lo stesso,” propose.
“Io sulla mia macchina non ce li voglio,” chiarì l’altro, e girò sui tacchi senza degnare il gruppetto di una seconda occhiata.

Nessun commento: