sabato 25 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 16

La casa di riposo era un grande palazzo giallo che passava sopra alla strada formando un arco. le luci erano tutte accese e quando Sensi e Mainardi entrarono, dopo aver parcheggiato rigorosamente in divieto, videro che c’era un certo numero di anziani signori piuttosto eccitati. Un vecchietto che assomigliava alla mummia di Tutankamon li sorpassò manovrando un deambulatore con la perizia di un giovane Senna.
Un paio di signore ottuagenarie si erano palesemente messe in ghingheri per la serata.
“È per via dei saraceni,” spiegò la giovane infermiera al bancone. “Siete qua per parlare con Gianni, vero?”
Sensi guardò Mainardi.
“Sì,” rispose quest’ultimo.
“Ve lo chiamo subito,” concluse l’infermiera, sorridendo radiosa, e sollevò il telefono con aria compita.
Sensi lanciò un’altra occhiata a Mainardi. L’occhiata diceva: non ci pensare nemmeno.
Mainardi spostò lo sguardo dal decolté, peraltro coperto, dell’infermiera per posare gli occhi sul bancone, leggermente contrariato.
“Sarà subito da voi,” li informò la ragazza, continuando a sorridere in modo radioso.
Sensi scoprì la sua bianca dentatura da squalo e socchiuse gli occhietti grigi, una mossa che lo faceva somigliare in modo incredibile a un simpatico Lucignolo. “Che lei sappia questo Gianni è il solo ad aver visto…”
“Io penso che fosse qualcuno mascherato,” non lo lasciò finire l’infermiera, continuando a sorridere come se avesse appena vinto alla lotteria. “Anche Gianni lo pensa. Sa, per via dei saraceni.”
Sensi parve divertito. “Mi rendo conto di non essere aggiornato su un fatto fondamentale per la vita del paese, ma è già la terza volta che sento nominare questi saraceni…”
“È una rievocazione storica,” spiegò l’infermiera, volenterosa. “Be’, una specie,” aggiunse, poi, un po’ imbarazzata. “Principalmente dei tizi vestiti da pirati spuntano fuori dagli scogli e combattono con i soldati, poi c’è una festa sulla spiaggia. Ci sono anche delle persone vestite da paesani.”
“In infradito e bermuda, quindi?”
L’infermiera fu scossa da una serie di piccoli risolini. “Oh, no!” squittì. “Da paesani… storici, come dire. Sa, le donne con le cuffiette e gli uomini con-”
“-La sifilide, capito. Come nei bei tempi andati.”
L’infermiera rise così tanto da diventare color porpora e Sensi iniziò ad avere il sospetto che a inizio turno si fosse drogata.
“Sa, non dovrebbe prendere quella roba, prima di lavorare,” disse, ottenendo in risposta solo un altro attacco di risa.
Il commissario sospirò. “E io che pensavo che le case di riposo fossero luoghi deprimenti e tetri.”
Finalmente un giovanotto vestito di azzurro scese a passo svelto dalle scale.
“Quello è Gianni,” disse l’infermiera, indicandolo e diventando di uno strano color porpora.
“Be’, Mainardi, devi rassegnarti,” commentò Sensi, mentre lui e l’ispettore gli andavano incontro, “è più bello di te.”
Mainardi borbottò qualcosa sottovoce. In quanto a Gianni, l’operatore, era bello davvero. Alto, snello, abbronzato e con i capelli castani raccolti in un ordinato codino.
“Sono il commissario Sensi,” disse Sensi, stringendogli la mano, “ e questo è l’ispettore Mainardi.”
“Sì, piacere. Grazie per essere venuti. Io sono di turno fino a domattina e non potevo muovermi.”
“Anche se potesse, devo informarla che la strada è chiusa.”
Mainardi sbuffò.
“Ci può raccontare che cosa ha visto?”
L’altro alzò le spalle. Sprizzava salute da tutti i pori, letteralmente. Salute e ottimismo. Probabilmente erano requisiti fondamentali per lavorare in una casa di riposo.
“Credo che fosse una persona travestita, ma, vede, qua possono entrare solo i membri del personale o comunque persone che siano passate dall’accettazione. Quindi quel tizio si deve essere introdotto illegalmente. Sa, alcuni ospiti hanno degli oggetti di valore.”
“Mi descriva il suo aspetto,” disse Sensi. Mainardi tirò fuori il taccuino, lanciando un’occhiata colpevole al capo. Sapeva quanto detestasse che i suoi uomini si comportassero da poliziotti veri.
“Aveva una specie di maschera da uccello, con un lungo becco nero. Credo che fosse fissata sopra alla testa, perché altrimenti sarebbe stato altissimo. Non mi ricordo bene il corpo, ma era grigiastro. L’ho visto passare in fondo a un corridoio, nell’intersezione con un altro corridoio. Gli ho chiesto di fermarsi, ma non mi ha ascoltato. Allora sono andato da quella parte, ma non c’era più. Probabilmente è sceso dalle scale ed è uscito in qualche modo. Non so come, però: le porte sono allarmate.”
Il giovanotto si strinse di nuovo nelle spalle. “Ho anche controllato la porta più vicina, ma era tutto normale. Forse si era procurato una chiave in qualche modo.”
“Capisco,” disse Sensi. “Solo un paio di domande. Il nome Sergio Sorriso le dice qualcosa?”
Il giovanotto aggrottò le sopracciglia. “No, mi dispiace. È un ladro?”
“Non che io sappia,” rispose il commissario, lanciando l’ennesima occhiataccia a Mainardi, che richiuse la bocca di scatto. “E Johan Milovich?”
“Neanche. Se vuole, però, le mostro il punto in cui l’ho visto.”
Sensi si grattò il mento. “Chiara Rosaio?”
L’altro sembrò stupito. “Be’, certo, Chiara lavora qua. Oggi è in malattia. Non crederà…”
Ma Sensi si era già voltato, e si stava allontanando a lunghi passi verso l’uscita. “Mainardi, controlla il corridoio, poi vai all’ospedale e piazzati davanti alla camera di Milovich, chiaro?” ordinò, senza fermarsi.
Mainardi, inebetito, guardò prima lui e poi l’operatore. Sospirò e mise via il taccuino.
“Mi dica che gli autobus passano anche a quest’ora,” disse, cupo, rivolto all’operatore.

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