venerdì 5 giugno 2009

Una linea d'ombra - 4

Il ragazzino, si scoprì, abitava a Bragarina. Era piuttosto probabile che, dalla questura, facessero prima a piedi, ma il commissario non se la sentiva di gelarsi le chiappe attraversando il parco che li separava dalla via della loro vittima.

Si mise alla guida del suo wrangler nero e si infilò nel traffico delle undici del mattino, con Tudini accanto.

In tutte le altre città del mondo le undici del mattino sono un periodo di fiacca. Chi doveva entrare al lavoro alle otto o alle nove era già entrato, i negozi erano aperti, le casalinghe a fare la spesa, i bambini a scuola. In teoria uno avrebbe dovuto aspettarsi di trovare per la strada solo furgoncini delle consegne e pensionati zelanti. Il fatto che Spezia fosse composta al 70% di pensionati, naturalmente, serviva in parte a spiegare il problema. Le strade erano intasate di macchine. Ma non di macchine frizzanti piene di gente che sta andando da qualche parte e vuole arrivarci prima della prossima glaciazione globale, no. Erano piene di macchine piene di gente vagolante, che non sapeva bene come buttar via il suo tempo, che procedeva a passo di tour panoramico, che aspettava speranzosa la prossima glaciazione per rompere un po’ il tran-tran.

Sensi percorse i cinquecento metri scarsi che li separavano dal brutto palazzotto anni ’60 della vittima in circa venti minuti e finì per parcheggiare in divieto nell’enorme parcheggio antistante, che a quell’ora, di logica, avrebbe dovuto essere vuoto, ma che invece straripava di macchine.

“Ermanno,” gli disse Tudini, mentre lui si chiudeva il giubbotto di pelle fino al mento. Forse, a pensarci bene, la successiva glaciazione globale era già iniziata. “Cerca di usare del tatto con questo ragazzino, va bene?”

“Ma se sono la persona più empatica del mondo,” protestò il commissario, ma non sembrava veramente offeso.

Il portone del palazzo era decorato a destra e a sinistra da due murales di fattura non eccelsa che inneggiavano all’uso della marijuana. Parte dei rami di una gigantesca foglia verde e seghettata copriva la pulsantiera del citofono, rendendo impossibile discernere i nomi sulle targhette.

“Suoniamo a un campanello a caso?” propose Tudini.

Sensi spinse il portone. “È aperto,” disse. 

L’interno era illuminato da una luce al neon intermittente e freddo come una catacomba. Qualcuno aveva pensato di ravvivare le pareti verde marcio continuando anche qua la campagna artistica per la diffusione della marijuana.

“Saliamo,” disse Sensi e si infilò su per le strette scale scrostate, ignorando l’ascensore. Non che condividesse le ansie dei suoi colleghi da telefilm nei confronti degli ascensori, ma quello in questione aveva l’aria di essere stato rottamato nell’83.

Salì prudentemente per un paio di rampe, occhieggiando le targhette sulle porte. Nelle scale c’era un odore misto di cane sporco e sudore, ma un paio di adesivi chiarivano eloquentemente che le visite dei Testimoni di Geova non erano benaccette, segno che anche lì doveva vivere della brava gente.

I Rosario-Gomez-Morelli abitavano al terzo piano. Sulla loro porta non si menzionavano i Testimoni di Geova, ma qualcuno, ultimamente, aveva avuto dei problemi a centrare la serratura. I suoi problemi dovevano poi essersi estesi fino a non trovare più neanche le chiavi, perché c’erano anche dei segni di scasso malamente riparati.

“Bel lavoretto,” commentò Tudini, che stava ancora ansimando per via dei tre piani di scale.

“Se avessero messo un bell’adesivo anche loro, i Testimoni di Geova non avrebbero tentato di entrare con la forza,” rispose Sensi, fatalista.

Suonò il campanello, che emise un suono gracchiante perfettamente in linea con gli standard del palazzo. Non giunse risposta.

“Forse non ci sono,” disse Tudini. “Forse il ragazzo e a scuola e i genitori sono al lavoro.”

“Forse sono tutti a visitare il museo etrusco, o ad aiutare i senzatetto, o a fare una corroborante passeggiata,” annuì Sensi. “O forse Moreno è strafatto in soggiorno e non è sicuro di riuscire ad arrivare alla porta.”

Riprese a suonare e diede anche un paio di calci sullo stipite.

“Arrivo!” gli giunse una voce strascicata, dall’interno.

“Niente museo etrusco,” commentò Sensi. Poi la porta si aprì con un rumore cigolante.

Dietro c’era un tizio altissimo, magrissimo, con i capelli neri e sporchi, la carnagione giallastra e con un bebè in braccio. Indossava i pantaloni di una felpa verdina, una maglietta bianca piuttosto sciupata e teneva il neonato contro un fianco. Stava fumando una sigaretta.

“Teresa non c’è,” disse, facendo cadere un po’ di cenere per terra.

Sensi gli mise sotto il naso il suo distintivo.

“Sergio Morelli, detto Moreno?”

L’altro, per un attimo, sembrò sul punto di scappare, ma poi sospirò con aria rassegnata.

“See. Che cosa ho fatto, ora?”

Sensi gli scivolò accanto ed entrò in casa.

“No, ma accomodatevi, eh?” gli disse Moreno, dalla porta. Poi la richiuse con un calcio e li seguì all’interno.

Quel che si vedeva della casa era un tinello, un bagno e due porte chiuse.

Sensi lasciò vagare lo sguardo per un istante, ma quando vide la stagnola bruciacchiata sul tavolino, decise che poteva anche fare a meno di guardare. Sfortunatamente, spostò gli occhi proprio su una confezione da sedici di siringhe.

“Moreno, ti rendi conto che solo nella prima stanza c’è da darci lavoro per un mese?”

L’altro non sembrò scosso. “L’uso non è un reato.”

“Come no. Benvenuto nel presente, dolcezza. Nel presente tutto è un reato, nel caso ti fosse sfuggito. Comunque, lasciamo perdere le evidenti tracce di sostanze e parliamo del tuo figliastro, Omar.”

L’altro sospirò di nuovo. “Che cosa ha fatto?”

“Scusa, è nomale che quel bimbetto non si muova, o è una nuova versione fichissima di Cicciobello? Sai, la versione che non piange, non caga e non fa niente per rompere le palle come un bimbo vero?”

Morelli sollevò il bambino, che era avvolto in una tutina rosa troppo grande. “Ha il sonno pesante,” disse, con un mezzo sorriso sdentato. Lo prese meglio e se lo appoggiò contro il petto. Il neonato emise una sorta di gorgoglio, segno che almeno era vivo.

“Commissario…” iniziò Tudini, la cui espressione da Neanderthal si era fatta più aggrondata di minuto in minuto.

“Un attimo. Vorrei parlare con Omar, se c’è.”

Morelli indicò con un dito una delle porte chiuse. “Là dentro. Non si incazzi se la manda affanculo, l’educazione non è il suo forte.”

“Eh, uno fa del suo meglio per educarli a modino, e poi quelli vengono su tutti storti.” Sensi annusò l’aria, avvicinandosi a lui. “Tudini, cambia questo bimbetto, mentre io parlo con l’adolescente molestato, ok?”

Andò alla porta che gli aveva indicato Morelli e la aprì senza tante cerimonie.

Dentro c’era, in effetti, un adolescente. A prima vista era difficile individuarlo, perché la stanza era quasi satura del fumo speziato di uno spinello, e non doveva essere neanche il primo della giornata. Sensi si chiese oziosamente se la propaganda giù nel portone fosse riuscita a convincere Omar o se Omar fosse l’artefice della propaganda.

Un ragazzino sui sedici anni, forse percependo una variazione nel gradiente dell’aria, alzò gli occhi per guardarlo. Le orecchie erano completamente coperte da una cuffia collegata a uno stereo scassato.

Sensi spense lo stereo e si richiuse la porta alle spalle. Il ragazzino si tolse le cuffie.

“E tu chi cazzo sei?” chiese, con voce leggermente impastata.

“Uno sbirro,” rispose Sensi. Poi spostò un po’ dei vestiti ammucchiati sul letto e si sedette in un angolo. “Sono qua per via della denuncia che hai fatto ai servizi sociali. Ma ti sarei grato se spegnessi quel cannone.”

“L’uso non è…”

“Non dovresti credere a tutte le cazzate che ti racconta Moreno. L’uso adesso è un reato, ma non è il reato che interessa a me.”

Il ragazzino spense controvoglia lo spinello dentro un posacenere debordante. Sensi rimpianse mentalmente le due aspiranti veline di qualche ora prima, poi si rassegnò a dire: “Allora. L’educatrice.”

L’altro si strinse nelle spalle. “È in classe mia, per assistere un ragazzo spastico.”

“Cosa è successo?”

“Niente, è che io dovevo passare il saggio di italiano, ok? Non è proprio il mio forte, mia mamma è salvadoregna, Moreno… be’.”

“Ok.”

“Sono andato da lei perché ha detto che mi dava, tipo, una mano. Ma la mano me l’ha messa nelle mutande,” dichiarò Omar, con un sorrisetto.

Sensi rimase in silenzio.

“Be’, eravamo lì che stavamo, tipo, ripassando, no? E questa, dal niente, mi infila una mano nei pantaloni e inizia a menarmelo.”

“Cosa stavate ripassando?” chiese Sensi.

L’altro si strinse nelle spalle. “Roba. Comunque sul momento rimango un po’ sfasato, no? E quella continuava a menarmelo, con una faccia tipo: quanto mi piace toccarti il cazzo.”

“Mh.”

“E poi inizia a dirmi delle cose, tipo dei commenti sul mio pacco, ok? E poi mi sono alzato e ho detto: no, cazzo.”

“No, cazzo,” ripetè Sensi.

“Non era neanche una brutta sega, guarda. Ma ho pensato: io non voglio, ok?”

“E lei cosa ha detto?”

“Niente, ha provato a rimettermi una mano lì. Era davvero affamata. Ma io me ne sono andato. Poi ho pensato: che cazzo, questa è una molestia. E così sono andato ai servizi, e lì c’era questa tizia che mi ha detto che la denunciavamo.”

“Come si chiama?”

“Chi?”

“L’educatrice.”

“Erica.”

Sensi sorrise. “Per caso ha anche un cognome?”

“Erica Buscetta.”

L’altro annuì. “Ok, adesso andiamo a verificare. Qualcos’altro da aggiungere?”

Il ragazzino si strinse nelle spalle. “No, niente. Che devo fare, adesso?”

Sensi avrebbe voluto suggerirgli di raccontare subito tutto ai suoi amici, ma si trattenne. “Te ne rimani buono e aspetti che facciamo il nostro lavoro. Hai qualche precedente?”

L’altro sembrò a disagio. “Un paio di mesi fa mi hanno trovato con del fumo. Devono ancora processarmi, però.”

“Quanto fumo?”

“Tre etti.”

“Be’, neanche un pachiderma se ne fumerebbe così tanto per uso personale.”

Omar si strinse nelle spalle.

“Penso che ti beccherai un periodo di messa alla prova, e dovrai pisciare per un sei mesi.”

“Pure Moreno dice così.”

“Giusto, la voce dell’esperienza. Ti sollevi un attimo le maniche?”

L’altro fece uno scatto indietro. “Guarda che io non mi faccio!”

“Non l’ho mai pensato. Te le sollevi un attimo?”

Il ragazzino, controvoglia, si tirò su le maniche della felpa oversize. Sul braccio sinistro aveva un taglio, ormai cicatrizzato, che correva dal gomito al polso, sul lato interno del braccio, quello morbido. Lì accanto c’erano un altro paio di tagli, ma meno convinti.

“Come facevi a saperlo?” chiese Omar, mentre Sensi guardava i tagli.

“Non lo sapevo,” rispose lui, alzandosi. “Ah, e Moreno non può tenere quel bimbo, lo capisci, vero?”

Anche il ragazzino si alzò. Arrivava più o meno al mento del commissario.

“Ma è suo figlio, gli vuole bene!”

Sensi guardò per un istante il soffitto, semi nascosto dal fumo. “Ci credo. Ma non può tenerlo lo stesso. Non tra le siringhe e le stagnole. E tua madre…”

“Mia madre è una puttana!”

Sensi pensò che fosse meglio non approfondire, e specialmente che fosse meglio non chiedere se l’epiteto fosse un insulto o un dato di fatto.

“Dico solo: nel frattempo badaci tu a quel bimbetto, ok, Omar?”

L’altro inspirò ed espirò, come se stesse sbollendo la rabbia.

“Certo, sbirro dei miei coglioni,” borbottò, mentre Sensi usciva.

4 commenti:

paolo raffaelli ha detto...

Ma sul serio a Spezia avete gli adesivi per i testimoni di Geova? Ma come siete avanti!

Susanna Raule ha detto...

ma mica solo a spezia. non li hai mai visti? quelli con scritto tipo "siamo ferventi cattolici, i testimoni di geova non sono graditi?"
li ho sempre trovati di un inquietante unico.

paolo raffaelli ha detto...

si chiama depistaggio... :)

Susanna Raule ha detto...

mah. io i testimoni di geova preferisco tenerli in frigo, ma i gusti sono gusti.