domenica 14 giugno 2009

Una linea d'ombra - 12

Quando uscì dal bagno trovò ad attenderlo un Tudini e un Mainardi che lo guardavano con aria perplessa. Tudini aveva in braccio il bebè.
“Forse sono incinto,” disse Sensi. “Avete una mentina o qualcosa del genere?”
Mainardi gli allungò un chewingum alla fragola.
“Commissario,” disse Moreno, che sembrava leggermente meno in coma rispetto a prima, “posso dirti due parole?”
Sensi annuì e l’altro si tirò stancamente in piedi e prese il neonato dalle braccia di Tudini.
“Andiamo qua fuori, staremo più tranquilli.”
Moreno lo precedette sulle scale verdastre, si accese una sigaretta e si mise a sedere sui gradini, sempre col bimbetto in braccio. Sensi si sedette accanto a lui.
“Omar è nella merda?” chiese il patrigno, con voce spenta.
Sensi non sapeva esattamente che cosa rispondergli. “Tanto bene non è messo, ma con noi non ha problemi.”
“Non mi ha voluto dire cosa ha combinato. È un po’ strano.”
Gli tremava una gamba, ma Sensi non riusciva a decidere se era un effetto dell’eroina che iniziava a mancargli o se era il suo modo di cullare il bimbo.
“Ieri l’altro ha avuto un problema con un’educatrice che lo stava aiutando con i compiti,” disse. “Le è saltato al collo e l’ha picchiata.”
“Oh, Cristo,” borbottò Moreno.
“Poi, pensando che così si sarebbe risparmiato una denuncia, si è inventato che lei l’aveva molestato.”
L’altro chiuse gli occhi e iniziò ad accarezzare ritmicamente la testa del neonato.
“Poi, questa mattina, qualcuno ha ucciso l’educatrice.”
Moreno riaprì gli occhi. “Non può essere stato lui. Era qua.”
“Be’, per essere onesti, la tua testimonianza non vale un cazzo. Ma, sì, non penso che sia stato lui.”
L’altro sembrò sollevato. “È un bravo ragazzo,” disse.
Sensi si tirò indietro i capelli. “Lo sai che non potete continuare così, vero?”
Moreno restò in silenzio.
“Tu e la tua donna vi dovete disintossicare. Dovete andare in una comunità, ma per un bel pezzo.”
“E Omar?”
“Non avete qualche parente?”
L’altro si strinse nelle spalle.
“Mica lo state aiutando.”
“Lo so, ma, sai… le cose andavano abbastanza bene, prima. C’ero stato in comunità, cosa credi? Un anno e mezzo in cima ai monti. Ero pulito come, non so, come qualcosa di molto pulito. Anche Teresa era pulita, tipo, e avevo un lavoro. È stato lì che abbiamo fatto Giacomino.” Dondolò un altro po’, tenendosi il bimbo sul petto.
“Poi mi è scaduto il contratto e… be’, non c’erano soldi, e così…”
“E così siete tornati a bucarvi e a fare marchette. Non è la storia più originale del mondo.”
“Se torno in comunità cosa succede a Giacomo?”
Sensi scosse la testa. “Devi parlarne con loro. Penso che ci siano delle comunità dove tengono anche i bimbi così piccoli.”
“Da soli?”
“No, idiota. Coi genitori. Ma il problema è che tu e Teresa non vi potete prendere cura proprio di un cazzo di nessuno. A me non frega niente se vuoi bene a tuo figlio e anche al figlio della tua donna, e vedrai che non frega niente neanche ai servizi. Avere dei genitori come voi è uno schifo e lo sai benissimo anche tu.”
Moreno continuava a dondolare in silenzio, accarezzando la testa del pupo, e Sensi immaginò che si sarebbe messo a piangere da un momento all’altro.
“Quindi, preparati all’idea. Uno di questi giorni, spero prima che dopo, verrà qualcuno dei servizi e ti dirà esattamente quello che ti ho detto io, solo che dietro ci sarà l’ordine di un giudice. Fai un favore a te stesso, prendi il pupo e vai tu per primo. Magari riusciranno a piazzarti da qualche parte anche con lui, non lo so. Ma a che cazzo ti serve tenertelo attaccato addosso se stai tirando le cuoia per la roba e per l’epatite, eh?”
Adesso Moreno aveva iniziato a piangere, ma Sensi non aveva ancora finito con lui.
“Non è meglio perdersi qualche vagito del bambino – che tanto non c’è – e non perdersi, tipo, la sua licenza elementare, o quando si sbuccerà le gambe giocando a calcetto, o quando avrà bisogno di un padre abbastanza in forma da andarlo a prendere in discoteca?”
“Cazzo, commissario…” piagnucolò Moreno.
“Già, mi sto commovendo da solo.”
L’altro lo guardò con gli occhi umidi e Sensi pensò che assomigliava a un cane malato che prova a convincerti a non fargli l’iniezione. Tranne che, in effetti, un’iniezione probabilmente era proprio quello che Moreno desiderava, in quel momento.
Si alzò in piedi e gli tese una mano per aiutarlo a fare altrettanto.
“Grazie, sei un bravo sbirro,” gli disse Moreno, sistemandosi meglio il bimbo in braccio.
“Questa me la tatuo sulle chiappe.”
“Dico davvero.”
Sensi gli fece l’occhiolino. “Anch’io. Niente scherzi.”

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