giovedì 7 maggio 2009

Sette, morto che parla - 16

La letteratura è piena di investigatori che passeggiano e io mi sono in qualche modo adeguato a questo standard.

In realtà, nel mio caso, visto che abito in centro si tratta più che altro di una necessità. Prova a parcheggiare da qualunque parte tra piazza Garibaldi e piazza Verdi dalle tre alle sette del pomeriggio. Neanche il contrassegno delle forze dell’ordine può aiutarti, perché non c’è posto nemmeno in divieto.

Quindi, ecco, sono un camminatore.

Era ormai il 28 aprile e, malgrado la mia geniale intuizione numerica, non eravamo molto vicini alla cattura del nostro squartatore.

Ho pensato molte volte che un serial killer non fa più vittime di una guerra, o anche di una comune epidemia di febbre cinese. Per quanto un serial killer si sforzi non può competere con gli incidenti stradali o le diagnosi sbagliate dei nostri valenti medici.

Non è che un granello nell’universo delle morti violente e accidentali.

Eppure, per qualche motivo che non mi saprei spiegare, volevo mettere le mani sul mio squartatore più di qualsiasi altra cosa, anche più di quanto volessi portarmi a letto la barista del Bar Brin. Il che è tutto dire.

Visto che però dal punto di vista “squartatore” non stavo facendo grandi passi avanti, niente mi impediva di proseguire nel soddisfacimento degli altri punti della mia wish-list.

E la barista era nettamente al secondo posto.

Avevo messo la mia squadra a fare tutte le cose noiose del caso: interrogare genitori e fidanzato di Katia, combinare date di nascita, mesi di morte, momenti critici della stagione calcistica (ovvero, parlando dello Spezia, tutte le domeniche) secondo le regole della Cabala ecc., ecc.

Visto, quindi, che la mia coscienza era a posto, partii alla volta della barista. Abito all’ultimo piano senza ascensore di un palazzo in vico Cerniai. Scesi dal mio tetto e iniziai a risalire via Prione, che era invasa dagli adolescenti come ogni maledetto giorno dalle quattro alle sette e mezza.

Mi feci largo tra gli ombelichi scoperti e i capelli scolpiti, rimuginando sul caso.

Insomma, passeggiai.

A dire il vero, malgrado la letteratura sostenga il contrario, passeggiare e rimuginare nello stesso tempo non mi viene benissimo. Dopo un po’ mi distrassi ed iniziai a scrutare con raccapriccio i passanti.

Non c’è niente da fare: mi sono adattato a questa città come un’ostrica nel suo guscio, ma non c’è molto che io e lei abbiamo in comune.

Camminai mogio mogio fino in piazza Brin, per infilarmi allegro nell’omonimo bar. Ovviamente, visto che questo è il “quartiere multietnico” della città, era pieno per un quarto di nordafricani, per un quarto di dominicani e per il rimanente di vecchietti semi-alcolizzati autoctoni che giocavano a briscola con senegalesi troppo condiscendenti.

La barista in questione stava frullando dietro al banco con una maglietta scollata che mi riempì di allegria. Mi andai ad appollaiare su uno sgabello e feci ciao con la mano.

«Commissario Sensi,» mi accolse lei, con aria di vago sfottimento, e passò uno straccio davanti a me per lucidare la mia porzione di bancone.

«Carmel,” replicai, con un sorriso ebete.

«Commissario di cosa?» si intromise inopportunamente un vecchietto appollaiato alla mia sinistra. Era il classico esemplare spezzino: ruvido come la carta vetrata, segaligno e carogna.

«Di polizia,» risposi, rassegnato alla risata che, infatti, seguì puntuale.

«Te? A me me pae un beccamorto, altro che commissario,» commentò carinamente il vecchietto. Sarebbe stato bello se lo squartatore avesse cambiato target e fosse passato agli sbevazzoni sopra i settanta.

Decisi di ignorare il mio inopportuno vicino e tornai a sorridere alla mia barista preferita, che nel frattempo stava ridacchiando. «Es un ufficiale, Peppo. Te vuoi far fare la multa?»

Di bene in meglio.

«È bello vedere i miei concittadini di buon umore, figurati che sono venuto qua apposta. Potrei persino chiudere un occhio sul vecchietto in divieto di sosta che ho notato sedendomi.»

Carmel rise e, in effetti, mi tirò su l’umore.

«Vuoi una birra?» disse, appoggiandomi nel contempo una Ceres davanti al naso. Sono di gusti prevedibili. Annuii e lei stappò velocemente la bottiglia e vi mise un bicchiere accanto.

«In realtà sarei venuto per un parere professionale,» cominciai, dopo aver bevuto il primo sorso. Dietro di me si accese una veloce discussione in arabo, che si interruppe quasi subito.

Carmel, come speravo, si chinò sul bancone.

Tirai fuori dalla tasca interna della mia giacca di pelle tre fotografie delle vittime (quando erano ancora vive, ovviamente) e le posai davanti a lei. Per quanto sembri insolito usare una barista dominicana e incredibilmente attraente come supporto per le indagini, ho imparato con l’esperienza che Carmel ha la sconcertante capacità di capire tutto di una persona al primo sguardo. Siccome funziona anche con le fotografie, non era la prima volta che gliene portavo.

Naturalmente non avevo mai avuto il coraggio di chiederle che cosa aveva capito di me, al primo sguardo.

Osservò le fotografie per qualche secondo e si accigliò.

«Sono quelle chicas morte, Manno? Quelle de…» cercò una parola nel suo ampio vocabolario italo-dominicano «…quelle de los satanistas? Matade durante i riti exoterici?»

La guardai come un perfetto babbeo, con tanto di bocca semi-aperta.

«Tesoro, è meglio se mi spieghi questa cosa,» conclusi.

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