lunedì 25 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 8

Aveva avuto un improvviso barlume di genio e aveva pensato di mettere il cellulare di Agostina in un sacchetto di plastica, invece di infilarselo semplicemente in tasca. Certo, un sacchetto per le prova sarebbe stato meglio, ma Sensi non se ne andava in giro con le tasche piene di sacchetti per le prove.
Forse ne aveva qualcuno in macchina, e se era così avrebbe trasferito il cellulare più tardi..
Dopo pensò che una foto di questa famosa Agostina gli sarebbe proprio venuta comoda, a quel punto. Era la seconda pensata intelligente della giornata e iniziò a sentirsi uno sbirro di prima categoria.
Telefonò a Dagoberti e gli chiese di raggiungerlo con una foto di sua cugina. Per andare sul sicuro gli disse anche che non l’aveva trovata e che, per quel che ne sapeva, non era morta.
Certo, il caso cominciava a essere un po’ strano, lo doveva ammettere.
Quando Dagoberti arrivò gli spiegò per sommi capi che avevano rintracciato il cellulare e che adesso gli serviva la foto. Quando Dagoberti provò ad avere notizie più precise Sensi chiese a Carmel di prenderlo in custodia e improvvisamente Dagoberti smise di lamentarsi.
Sensi tornò trotterellando verso la chiesa, sentendosi piuttosto confidente che Carmel non sarebbe stata presa da un’improvvisa passione per l’altro.
Questa volta invece di entrare direttamente iniziò a costeggiare l’edificio. La porta che cercava, quella degli appartamenti del parroco, ovviamente era sull’ultimo lato che controllò.
Citofonò, spiegò chi era a una voce femminile, poi lo rispiegò a una voce maschile, infine gli dissero che poteva parlare con Don Mauro.
Se per vedere un parroco di periferia serviva tutta quella trafila chissà per vedere il Papa.
Sensi si arrampicò lungo delle scale strette, erte e male illuminate. L’odore di chiesa, in fondo gradevole, qua era sostituito da quello che sembrava odore di cavoli e salsiccia. Sensi odiava i cavoli. E poi, come diavolo faceva quella gente a cenare alle sei e mezza di sera?
Mentre faceva questi pensieri arrivò in cima alle scale. Il suo sottotetto era al quinto piano senza ascensore, quindi avrebbe dovuto essere allenato. Ciò nonostante, aveva il fiatone quando bussò all’ennesima porta.
Questa si aprì con una velocità che il commissario giudicò sospetta, proprio come se qualcuno fosse in attesa subito dietro.
Era una donna piccola e scialba, che Sensi classificò come suora solo alla seconda occhiata. Non aveva il vestito nero, il sogolo e tutte quelle altre cose suoresche, ma, in effetti, nessuna donna sana di mente si sarebbe mai vestita come lei.
Disincastrò il portafogli dall’aderente tasca posteriore dei propri pantaloni e le mostrò il distintivo.
“Commissario Sensi,” ansimò.
La quasi-certamente-suora gli lanciò un’occhiata lunga e sospettosa. Sensi ci era abituato, ma che una con un’informe gonna blu a metà polpaccio con sotto un paio di scarpe larghe e piatte trovasse da ridire sul suo abbigliamento era una novità. Comunque, dato che doveva darsi un tono, si aggiustò il bomber di pelle nera e la sottostante felpa dei Christian Death, che non metteva quasi mai ma che quella mattina gli era sembrata perfetta.
“Mi segua,” disse la quasi-certamente-suora, che così dimostrò di saper anche parlare oltre che saper guardare con disapprovazione. Lo condusse fino a un'altra porta, questa con dei pannelli di vetro, alla quale bussò.
“Don Mauro,” disse, in tono melenso, “c’è qua il commissario.”
Anche in questo caso la porta si aprì con una velocità sospetta, come se Don Mauro fosse stato proprio a portata di maniglia quando la quasi-certamente-suora aveva bussato.
Don Mauro, almeno, era certamente un prete.
Non solo indossava la lunga veste nera dagli infiniti bottoni, le scarpe nere che ormai portavano solo i preti e i camerieri più sfortunati, e il rosario-cintura o come si chiamava, ma aveva anche il tipico sorriso da prete.
Anche Don Mauro gli diede un’occhiata bella approfondita, che Sensi ricambiò senza una parola.
“Il commissario?” chiese, alla fine, Don Mauro, senza smettere di sorridere.
Sensi sollevò di nuovo il suo distintivo. “C’è scritto anche lì sopra.”
“Naturalmente. Il suo aspetto mi aveva tratto in inganno. Ma l’abito non fa il monaco, non è vero? Venga, si accomodi.”
“Bah,” rispose Sensi, seguendolo quietamente, “in realtà l’abito fa il monaco. Ad esempio, io ho un tesserino ufficiale che prova che sono il commissario capo della squadra mobile di questa città, mentre lei, per quanto ne so, potrebbe essere anche un passante travestito da parroco. Ma diamo per scontato che a nessuno di buon senso verrebbe voglia di travestirsi da parroco e continuiamo: lei conosce una certa Agostina Dagoberti, paragnosta?”
Don Mauro, che mentre Sensi parlava non aveva mai perso il sorriso, sbatté lentamente le palpebre pesanti. L’aveva preceduto in una stanza piuttosto angusta, umida e fredda che doveva essere il suo studio. Prima di rispondere si andò a sedere dietro una larga e vetusta scrivania di noce scuro, coperta di scartoffie e quaderni di scuola.
“Mi può ripetere il nome?” chiese.
Sensi lo fece. “Non mi dice niente,” disse, allora, Don Mauro.
“E questa donna?” disse Sensi, tirando fuori la fotografia di Agostina.
Il prete la guardò attentamente, o meglio, fece mostra di guardarla attentamente. “No, mi dispiace.”
“Capisco.”
Sensi, che era rimasto in piedi fino a quel momento, pensò che fosse arrivato il momento giusto per sedersi. Si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania e allungò le gambe davanti a sé, sul pavimento.
Alzò lo sguardo e sorrise (il suo sorriso era molto meno rassicurante di quello del prete).
“Quindi non ha idea di come il cellulare di una persona scomparsa sia finito dentro il suo confessionale,” disse, in tono tranquillo ma non interrogativo.
Il sorriso di Don Mauro diede forfait. “Cosa?”
“Sarebbe a dire ‘no’, immagino.”
“Sarebbe a dire che non ho capito.”
Sensi si voltò improvvisamente verso la porta. “Sorella non-so-cosa? Può entrare, se vuole.”
Da dietro la porta non provenne alcun rumore, ma in effetti non ce n’era bisogno: l’ombra della suora si stagliava contro i pannelli di vetro.
“Anzi, credo che dovrebbe proprio,” aggiunse Sensi.
“Venga avanti, per favore, sorella Rachele,” disse Don Mauro, con voce rassegnata.
Alla fine la porta si aprì e la suora in borghese si fece avanti. “Venivo a chiedere se gradivate del tè,” disse.
“Che bella idea,” si illuminò Sensi. “Avete per caso anche della Red Bull?”
Suor Rachele gli rivolse uno sguardo eloquentemente vacuo.
“Come non detto. Ha mai sentito il nome Agostina Dagoberti?”
La suora scosse la testa.
“E ha mai visto questa donna?”
Anche suor Rachele diede l’impressione di osservarla con attenzione, prima di scuotere nuovamente la testa.
“C’era un cellulare abbandonato dentro un confessionale, l’ha notato?”
“Un cellulare? Santo cielo.” Be’, almeno ora Sensi sapeva che c’era qualcosa che poteva scuoterla, a parte la sua felpa dei Christian Death.
Proprio in quel momento fu il cellulare di Sensi che iniziò a squillare. Il fatto che la musica suonasse allegramente inquietante probabilmente non lo riabilitò agli occhi dei due ecclesiastici, che sollevarono le sopracciglia praticamente in sincrono.
“Velocemente, Mainardi,” rispose Sensi, vedendo il numero sul display. Già gli riusciva difficile fare una cosa per volta.
“Sono stato fin’ora dal veterinario, capo,” iniziò l’ispettore. “Dice che il pappagallo è un Diopsittaca Nobilis, piuttosto giovane, e che qualcuno gli ha spezzato le ali, probabilmente a mani nude, forse involontariamente cercando di prenderlo.”
“Eccellente. Che ne è del volatile?”
“L’ho affidato al veterinario, capo. Aveva bisogno di cure.”
“Molto bene. A domani.”
Sensi richiuse il cellulare e tornò a guardare Don Mauro, che aveva smesso definitivamente di sorridere.
“Ora, se lei avesse visto la donna della fotografia che le ho mostrato, diciamo, in confessione…” iniziò.
“Signor commissario…” Era un pezzo che nessuno lo chiamava così, ma Sensi non commentò. “…Non solo la confessione è segreta, ma c’è anche una grata tra il sacerdote e chi si confessa. Non potrei risponderle neanche se volessi.”
Sensi evitò di far notare che uno doveva essere ipovedente per non riuscire a vedere una faccia attraverso una grata e continuò per la sua strada. “Ok, mettiamola così, allora: per caso questa mattina è venuta a confessarsi una persona che aveva qualcosa a che vedere con un volatile? Con un pappagallo, nello specifico?”
L’espressione del prete fu tutta un programma, ma poi disse: “Non le posso rispondere, mi dispiace.”
Una parte di Sensi gli suggeriva di prendere semplicemente quel grasso bacherozzo per il collo e appenderlo al muro, ma naturalmente non lo fece.
Invece si alzò in piedi e gli rivolse un sottile sorriso. “Mi ha già risposto,” disse, prima di andarsene.
Solo più tardi Don Mauro si rese conto che sulla sua scrivania ora c’era una sorta di grosso tatuaggio, simile alla sagoma di una figura umana che gettasse la sua ombra sul legno. Solo che la sagoma non era esattamente umana e non si trattava di un tatuaggio, ma di una sorta di marchio a fuoco. E sulla natura del soggetto Don Mazzi non aveva alcun dubbio.

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