venerdì 22 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 4

Via Podgora, scoprì il commissario, era esattamente il tipo di strada che un urbanista sensato non avrebbe mai fatto costruire. A Spezia, d’altronde, di urbanisti sensati non ce n’erano mai stati, a parte, forse, un breve periodo durante il XIX secolo. Via Podgora, quindi, si inerpicava su un fianco delle alte colline che sovrastavano la città, formando una serie di strette anse a gomito e integrandosi nell’intrico di sensi unici e insospettabili doppi-sensi che formavano un dedalo in salita che avrebbe fatto sentire a casa propria qualsiasi Minotauro. Era fiancheggiata da basse casette di due o tre piani, dall’inconfondibile architettura anni ’60, e da occasionali villette a schiera, che probabilmente avevano una vista mozzafiato sul Golfo, o almeno sulla periferia della città. Sebbene la strada consentisse a stento il passaggio di una macchina, qualcuno aveva pensato che una serie di parcheggi a incastro, su un lato, ci sarebbe stata proprio bene.
Sensi pilotò cautamente la sua jeep Wrangler su per la stretta stradina, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Dagoberti. In passato gli era capitato di imboccare un senso unico sbagliato e aveva capito che fare un errore del genere, quando eri ai Vicci, significava dover rifare il giro panoramico completo della città.
“Siamo arrivati,” disse, alla fine, Dagoberti. “La casa di Agostina è quella lì. Può parcheggiare davanti al cancello, se vuole.”
Sensi, in realtà, non voleva affatto incastrare la sua macchina nel ristretto spazio tra una Punto, un Doblò e la cosiddetta carreggiata, ma non vedeva alternative. Dopo un numero pressoché infinito di manovre riuscì nell’impresa e lasciò sul parabrezza il contrassegno delle forze dell’ordine. Ci mancava solo che gli rimuovessero la jeep perché ostruiva il passo carrabile. Non si era neanche portato le corde da arrampicata, per tornare in città.
Dagoberti lo precedette lungo il breve vialetto asfaltato che portava all’ingresso principale della casa (e che non giustificava in alcun modo il fatto che il cancelletto fosse considerato un passo carrabile). Era una villetta a due piani verdino chiaro, contornata da un’aiuola di qualche tipo di rosacea, al momento secca. Anche nella luce grigiastra del cielo eternamente coperto di Spezia, non sembrava propriamente l’esemplare tipico di casa infestata. Le finestre avevano delle tendine di pizzo, si vedeva benissimo anche da lì.
Dagoberti aprì la serratura e gli fece segno di entrare. Sensi notò che accanto alla porta c’era una targa che annunciava che Agostina era una paragnosta riconosciuta di una qualche associazione di svitati.
L’interno era quanto di meno paragnostico ci si potesse aspettare.
Un salotto immacolato lasciava spazio a una cucina di specchiata pulizia e il bagno era così ordinato che Sensi immaginò che anche i cotton-fioc fossero allineati dal più alto al più basso.
“Sembra tutto, hem… in ordine,” commentò il commissario. Dire che quel posto era in ordine era come dire che Adolf Hitler era un birichino.
Aprì un’anta del mobiletto del bagno e ci guardò dentro. Come si aspettava c’era una quantità pressoché infinita di farmaci, tutti perfettamente allineati, forse per data di scadenza.
“Sua cugina era seguita da qualcuno, per questa cosa dell’agorafobia?” chiese.
“Oh, ha cambiato diversi specialisti. Alla fine si è rivolta a un’omeopata.”
“Ah, e ha funzionato?” chiese il commissario, che aveva provato con curiosità più o meno tutti gli psicofarmaci disponibili sul mercato prima di essere fidelizzato dal Prozac.
“No,” rispose Dagoberti. “Ma d’altronde non aveva funzionato neanche il resto.”
Sensi uscì dal bagno e tornò in salotto.
L’unico segno della professione della scomparsa era un mazzo di tarocchi lasciato sul tavolinetto di vetro tra due poltrone immacolate.
“E Jon-Jon era su quel trespolo, suppongo,” disse il commissario, indicando una sorta di ramo di plastica che protrudeva da un vaso pieno di ciottoli bianchi.
“Esatto. Essendo impagliato, non sporcava.”
Sensi andò a sedersi a una delle due poltrone.
“Il mazzo di solito era qua?” chiese. Non che la risposta gli avrebbe detto qualcosa, Sensi non era molto abile con gli indizi, ma gli sembrava la cosa giusta da dire.
“No, in effetti di solito era in quell’armadio, insieme agli altri oggetti della professione.”
Sensi prese il mazzo e rovesciò la prima carta.
“Una torre capovolta, brutto segno,” commentò.
“Si intende di tarocchi?”
“Coi fondi di caffè vado più forte. Provi a telefonare di nuovo,” aggiunse, poi.
Dagoberti tirò fuori il cellulare e digitò qualcosa.
Il commissario si rilassò contro lo schienale della poltrona e accavallò le gambe. La sua ombra, che si stagliava debolmente sul pavimento nella luce grigia della casa, sembrò oscillare lievemente.
“Niente. È acceso, ma non risponde. Crede che si potrebbe, ecco, rintracciare?”
“Non ne ho la più pallida idea,” rispose Sensi, con gli occhi socchiusi. “Continui a provare.”
Se Dagoberti non fosse stato impegnato a guardare il vuoto davanti a sé e ad ascoltare il trillo della chiamata, forse si sarebbe accorto che l’ombra del commissario si stava stiracchiando in un modo che non aveva molto a che vedere con la posizione del suo proprietario.
Sensi si alzò di scatto dalla poltrona e salì con passo deciso le scale che portavano al secondo piano.
Dagoberti, smarrito, gli andò dietro senza lasciare il cellulare.
Il commissario si era diretto con aria molto sicura verso la camera da letto di Agostina. Era entrato senza guardarsi attorno e aveva aperto l’armadio.
“Curioso,” commentò, inclinando la testa da una lato.
Esattamente in quel momento si udì uno strano richiamo riecheggiare nella casa.
“AIUTO-AIUTO!” diceva lo strano richiamo, con la voce gracchiante di un pappagallo.
Dagoberti richiuse il cellulare e guardò il commissario.
“AIUTO-AIUTO!” ripeté la voce del pappagallo. Quella mattina Dagoberti non aveva capito da dove provenisse (e si era preso uno spavento tale da non voler indagare troppo a fondo), ma adesso sembrava chiarissimo che veniva dall’armadio.
“Ovvio. Hai perfettamente ragione, amico,” disse il commissario, chinandosi. Dagoberti gli andò alle spalle.
Dentro l’armadio, che per il resto era vuoto, c’era un pappagallo verde e rosso, che starnazzava a tutto spiano.
“Ma… quello non è Jon-Jon!” esclamò.
“Grazie per avermelo confermato,” rispose Sensi, seccamente. “Il primo sospetto mi era venuto quando mi sono accorto che non è impagliato.”
“Non capisco,” disse Dagoberti, senza far caso al suo sarcasmo.
“Neanch’io. Perché non vola?”
“AIUTO-AIUTO!” si limitò a ripetere il pappagallo.
Sensi si chinò verso di lui e gli sollevò cautamente un’ala. La lasciò andare subito e si pulì la mano sui pantaloni neri.
“Gli hanno fatto qualcosa alle ali. C’è del sangue.” Poi si chinò di nuovo e prese il pappagallo da sotto. Il volatile gli strinse immediatamente gli artigli attorno a un dito.
Sensi si rialzò e guardò per qualche istante il pennuto che gli si era appollaiato sul dito.
“Agostina,” gli disse.
“AIUTO-AIUTO!” ripeté il pappagallo.
“La sua conversazione è un po’ monotona,” rilevò il commissario, apparentemente serissimo.
“Ma che cosa significa tutto questo?” chiese Dagoberti, sempre più agitato.
Sensi si strinse nelle spalle. “Lo chiede a me?”

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