mercoledì 27 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 12

Arrivò davanti allo studio del commercialista Ghedolfi solo verso le tre del pomeriggio, dopo aver eluso abilmente tutte le chiamate dalla questura.
Era uno studio iper-moderno e Sensi si chiese per qualche minuto se non fosse finito dentro una puntata di Star-Trek Voyager. Il bancone delle segretarie (plurale) era di vetro opaco con incastrate dentro delle cose, forse degli artefatti klingon.
L’immensa vetrata dava su… be’, in effetti dava su un palazzo vicino. Troppo vicino, secondo gli standard galattici. Dava l’impressione che l’astronave dello studio Ghedolfi si stesse per schiantare contro il pianeta terra nella sua espressione più materiale: panni stesi ad asciugare, tricicli sui balconi, persiane verdine un po’ scrostate. Comunque era chiaro che non era colpa di Ghedolfi se i vicini avevano il cattivo gusto di stendere sui fili del bucato quel che sembrava un enorme paio di mutande da donna.
Il commissario mostrò il proprio distintivo a una delle segretarie, una tipa che sarebbe stata meglio sul set di un film porno, secondo il modesto giudizio di Sensi.
“Il dottore la riceverà subito,” cinguettò lei.
“E per aver un appuntamento con lei come posso fare?” si informò Sensi. “Per motivi strettamente fiscali, s’intende.”
Riuscì a dirlo in tono così serio che la segretaria iniziò a spiegargli che lei si occupava solo della contabilità e che per la sua dichiarazione dei redditi doveva parlare col “dottore”. Aggiunse anche che, nel suo piccolo, stava cercando di laurearsi in diritto patrimoniale, cosa che spense immediatamente la libido del commissario.
Il dottor Ghedolfi era un tizio basso e solido, sulla quarantina, con l’impavida abbronzatura invernale di chi fa sport all’aria aperta trascurando il proprio lavoro. Almeno, questo fu quello che pensò immediatamente Sensi, che era più che soddisfatto della propria carnagione cadaverica.
Lo introdusse nel suo ufficio con gentilezza impeccabile.
Se l’anticamera era in stile Guerre Stellari, l’interno era in stile Impero Napoleonico. Sulle pareti stuccate facevano bella mostra una serie di paesaggi a olio dalla tranquillità assopente, una parete era coperta da una libreria intarsiata di legno rossastro, che faceva pendant quasi casualmente con la massa immensa della scrivania, inquietantemente lucida. In giro c’erano varie carte, perfettamente impilate e raccolte in cartellette color avorio.
Sensi appoggiò comodamente il culo su una sedia gonfia che doveva avere circa un secolo più di lui, Ghedolfi si assise sull’oggetto monumentale che forse, in privato, chiamava “trono”.
“Mi dica, commissario…?”
“Ermanno Sensi, squadra mobile. Sa che cosa manca a questa stanza? Dei fiori. Dovrebbe davvero mettere qualche mazzo di, non so, gigli? Leggermente sfioriti sarebbero perfetti. Darebbero all’insieme quel quid in più di decadenza.” Fece un gesto con la mano. “Opinione personale, è ovvio.”
Ghedolfi aprì la bocca per rispondere qualcosa sul tema floreale, leggermente perplesso, ma Sensi lo prevenne con un altro gesto.
“Ma parliamo di pappagalli. In particolare dell’esemplare di Diopsittaca Nobilis, anche conosciuto come Ara Nobile, che lei ha inviato alla signorina Dagoberti.”
Il commercialista aveva aggrottato la fronte, ma fu la fine della frase che lo fece contrarre del tutto.
“Ah, sì,” disse, affettando noncuranza. “Spero che l’abbia gradito.”
“Lei andava spesso a farsi leggere le carte dalla Dagoberti?” replicò Sensi, senza rispondergli.
Ghedolfi parve leggermente imbarazzato. “Di quando in quando… ma perché ha usato il passato?”
“L’ultima volta, credo, il responso non è stato dei più fausti.”
Adesso Dagoberti aveva tutta l’aria di qualcuno sulle spine. “Non capisco dove vuole arrivare.”
Sensi gli rivolse un sorriso sottile e per niente rassicurante. “Niente, volevo solo dirle di persona che quello che ha fatto non è un reato.”
“Ma, scusi, che cosa…”
“Voglio dire: non è un reato regalare un animale vivo e starnazzante a un’agorafobica ossessivo-compulsiva. Assolutamente no.”
“Ah, e quindi…”
“Quindi nessuno la accuserà di aver fatto venire – volontariamente, tra l’altro – una crisi di nervi alla signorina, né di aver messo in allarme il cugino, né di aver fatto lavorare il sottoscritto per una giornata intera. Non è assolutamente perseguibile. Pensi, mi sono persino informato.”
Ghedolfi si era leggermente ritratto sulla sua imponente sedia che, notò Sensi in quel momento, aveva la peculiare caratteristica di farlo sembrare più piccolo e basso e di quanto fosse in realtà.
“Io non…”
“Lei non è una persona rispettabile? Sono perfettamente d’accordo, mi creda. Solo un sadico malato può architettare un piano del genere per punire la propria cartomante di una lettura infausta. Ma, come le dicevo, essere un sadico malato non è un reato.”
Sensi si alzò e si spolverò qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle.
Guardò fisso il commercialista con i suoi piccoli occhi grigi e per un attimo l’uomo ebbe l’impressione che fossero diventati di un profondo color sangue. Ma era chiaro che era solo uno scherzo della luce, forse il riflesso di uno dei libri sugli scaffali.
“Vede, io non mi occupo di reati fiscali. Non saprei da che parte cominciare. Questo, per inciso, significa che il suo studio, d’ora in avanti, verrà tenuto d’occhio da qualcun altro, non da me. Ma la mia branca, la mia specializzazione, direi quasi, sono esattamente i sadici malati.”
Il commissario lo guardò ancora in silenzio per qualche secondo, poi sorrise di nuovo. “Quelli che commettono dei crimini perseguibili, va da sé. Lei è in una botte di ferro… per il momento. Le auguro un’ottima giornata.”
Sensi se ne andò, e dopo un attimo anche la sua ombra insolitamente scura si ritrasse dall’ufficio.
Ghedolfi guardò la porta socchiusa per un pezzo, prima di convincersi che il commissario era uscito dal suo studio in via definitiva.

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